
Si è accomodato sulla sedia di Direttore generale di BCC Patavina soltanto da qualche settimana, dopo un lungo cammino di avvicinamento percorso sia nella realtà del Credito Cooperativo, che nel mondo degli affari e delle imprese, con qualche sconfinamento nel pubblico. La laurea in Giurisprudenza, la pratica e le prime attività in uno studio legale, l’ingresso nel consiglio di amministrazione di una BCC (del Veneziano). Nel 2000, Andrea Bologna diventa direttore della Federazione Veneta delle BCC, tredici anni di lavoro in ambito regionale, sui temi del risparmio, della finanza, dell’organizzazione, in un tempo di grande trasformazione delle ex Casse rurali. Poi, ancora qualche anno da libero professionista, in fine il ritorno nel credito cooperativo, questa volta nel Gruppo Cassa Centrale. Ora alla guida di Banca Patavina, nella prospettiva dell’annunciata fusione con BCC di Verona e Vicenza.
Di solito non si fa, non si usa, non è prassi abituale; si può correre il rischio di anteporre gli esiti di chiacchierate più o meno informali, perdendo il filo del ragionamento. Ma questa volta ne vale la pena, perché il meglio, o forse l’essenziale, viene proprio al termine di un denso conversare con Andrea Bologna, nuovo direttore generale di BCC Patavina.
Insomma, vogliamo delineare il modello (con tutti i limiti di tale presuntuosa ipotesi) di Credito Cooperativo del XXI secolo?
“Tutto sommato è abbastanza semplice, almeno dal mio punto di vista. Sogno, anzi vorrei, un Credito Cooperativo fatto di banche che siano a servizio, a disposizione delle persone e delle comunità, con le quali avere un rapporto non clientelare o saltuario, ma all’insegna della stabilità”.
Un po’ generico…
“Non direi. Certo, persona e comunità sono termini molto ricorrenti, che vengono usati in vari contesti e talora in maniera disinvolta; per coglierli nel significato autentico e ottimale, almeno dal mio punto di vista, bisogna andare oltre, guardando al concreto delle scelte e degli atteggiamenti”.
Partiamo dalle persone, anzi dai clienti….
“Ecco, proprio in questi due termini sta la differenza: la banca a cui penso e tendo è quella che considera i suoi interlocutori prima di tutto come persone, che sono anche, ma non prevalentemente, clienti. La BCC, come tutte le altre banche (anche se la nostra è una cooperativa, un soggetto non profit), è un’impresa che deve avere i conti a posto e cercare di fare utile. Ma ciò non a tutti i costi, soprattutto non vedendo nei soggetti con cui viene a contatto, siano anche famiglie, gruppi, aziende, qualcuno o ancor peggio qualcosa di cui approfittare solo in una logica di tornaconto. Noi, come banca, vorremmo essere attenti alla qualità della vita dei nostri soci e clienti, senza escludere, anzi nella convinzione che questo possa portare vantaggio reciproco a noi, come impresa, e agli altri, alla comunità nel suo insieme”.
Eccola dunque l’altra parola decisiva: comunità. Una categoria talora indefinibile, perfino poco chiara…
“Sociologicamente questo termine, negli ultimi decenni, è molto cambiato. Un tempo, comunità era strettamente inerente a un territorio; d’altra parte la nostra vita era organizzata in paesi, contrade, parrocchie, quartieri, città. Oggi le comunità spesso prescindono dalla collocazione geografica, anche se quest’ultima continua a mantenere molta rilevanza, soprattutto quando parliamo di servizi. Ma essere una banca di comunità vuol dire andare oltre il bene e la qualità di vita del singolo o di gruppi, significa piuttosto promuovere e sostenere una collettività, interpretandone i bisogni, affermando il concetto e la prassi del non individualismo, accarezzare non soltanto l’idea del benessere ma del buon vivere. Non vorrei mai lavorare in una banca che punta soltanto a far arricchire il singolo o qualche categoria”.
Utopia?
“Non credo proprio. Queste idee possono diventare scelte e vita, anche in un contesto, come quello di una banca, apparentemente arido o ancor peggio governato dal denaro. D’altra parte il Credito Cooperativo è stato per più di un secolo proprio questo”.
Adesso è cambiato?
“Soltanto nelle modalità di perseguimento dei suoi obiettivi originari, che peraltro hanno continuamente bisogno di esser rivisitati alla luce del nuovo emergente. Quando ho cominciato a occuparmi di Credito Cooperativo, una trentina d’anni fa, la dimensione europea del sistema bancario era soltanto agli inizi, poi sono giunte le grandi trasformazioni, Basilea 1 e 2, la vigilanza che è passata dalla Banca d’Italia all’Europa, la nascita dei Gruppi Bancari, di cui anche noi facciamo parte. Non potevamo certo pensare che tutto rimanesse com’era prima. Nonostante questo, il Credito Cooperativo c’è ed è ancora tale nelle motivazioni di fondo del suo esistere”.
Qualcuno (maliziosamente) sostiene che proprio il sorgere dei Gruppi bancari (in Italia sono due, Iccrea e Cassa Centrale) abbia impoverito le ex Casse rurali di un valore prezioso come la loro autonomia o il forte legame con le comunità locali…
“Limitarsi e questo è riduttivo: guardiamo invece ai vantaggi che queste trasformazioni hanno comportato. L’essere inseriti in grandi Gruppi, che si interfacciano direttamente con l’Europa, ci ha arricchito nelle competenze, negli strumenti, nelle possibilità di offrire servizi sempre più qualificati a soci, clienti, famiglie, imprese. Ma pensiamo veramente che le piccole banche di paese o di parrocchia avrebbero potuto resistere ed essere attuali? Tutto questo ha imposto anche una revisione degli assetti delle BCC, della loro consistenza, degli ambiti territoriali, ma ciò non ci impedisce di essere, in maniera innovativa, ancorati a quello che siamo sempre stati. Qui ovviamente torniamo a capo, parlando di persone, comunità e di qualità delle relazioni”.
Insomma, vale ancora la pena di diventare soci?
“Forse in maniera un po’ diversa dalle motivazioni di un tempo. Una volta esser socio voleva dire far parte di un sodalizio che tutelava e garantiva la comunità di casa. Oggi si tratta soprattutto di affiancare e condividere, se non proprio sposare, un progetto, un modo di essere istituto di credito. Divento socio perché questa banca è impegnata per il bene comune, mio e della “mia gente”; un riferimento, a prescindere dalle dimensioni. Inoltre, far parte della compagine sociale vuol dire voler dare continuità e stabilità alla relazione”.
Sempre il solito “malizioso” insinua che le autorità europee non amino molto le banche che escono dai loro binari dell’essere soggetti economici e finanziari. Insomma, il famoso articolo 2 delle Statuto delle BCC, che impone l’impegno per lo sviluppo integrale (e sostenibile) della comunità, pare sia in discussione?
“In Europa i modelli di Credito Cooperativo sono molti. Credo che la nostra storia, ma anche i convincimenti attuali, non lascino spazio a equivoci: il bene delle persone e delle comunità non può essere circoscritto al portafoglio. Anzi, proprio la dilatazione integrale della categoria del bene comune è uno degli obiettivi anche di questa Banca. Recentemente è nata “Patavina con Te”, un’associazione allargata ad altri soggetti, che ha proprio lo scopo di favorire la crescita in ambiti come quello del welfare personale e di comunità. È una strada nuova, ma anche la conferma che su alcuni “pilastri” il Credito Cooperativo non ha alcuna intenzione di venire meno e credo che nessuno voglia un futuro al ribasso”.